I bambini piccoli piangono frequentemente per tanti e diversi motivi. È consuetudine che il pianto venga considerato dai genitori, preoccupati della salute e del benessere dei propri bimbi, quasi come un grido di dolore (da zittire), un evento negativo associato a tristezza, un episodio da evitare o da contrastare.
In realtà soprattutto nei primi mesi di vita un bambino piange spesso e per diversi motivi: il pianto è il modo che il bimbo ha per comunicare le proprie necessità. Col pianto ad esempio ci dice che ha fame (anche se il pianto per fame è preceduto da altri segnali quali l’apertura della bocca, il girare il volto a destra e a sinistra alla ricerca del seno, il tentativo di succhiarsi la manina.. ), sonno, che l’ambiente in cui si trova è troppo caldo, o freddo, che ha paura, bisogno di attenzione, di rassicurazione, che percepisce una sensazione sgradevole a causa del pannolino sporco, che si annoia, che è stanco, che ha bisogno di scaricare le tensioni accumulate durante il giorno a causa dell’esposizione a tanti (a volte troppi!) stimoli che ancora non è ben in grado di ricevere, interpretare, gestire.
Il pianto è quindi un mezzo di comunicazione in uno stato di immaturità e non autosufficienza. I nostri bambini nascono molto immaturi rispetto a cuccioli di altre specie di mammiferi, che già appena nati possiedono diverse competenze. Il nostro bebè al contrario è immaturo e ha un assoluto bisogno di essere completamente accudito.
Il pianto è quindi uno stimolo alla risposta efficace, perché suscita nella mamma e negli altri adulti che lo accudiscono il riflesso immediato di occuparsi di lui, di provvedere alle sue necessità, di alleviare i suoi fastidi. In questo modo il piccolo si è sempre garantito la sopravvivenza.
A meno che non esistano condizioni particolari, il pianto non costituisce un problema o una malattia da curare (né tantomeno una tattica da parte del bambino), ma assume una valenza relazionale, che presuppone la connessione emotiva e la comunicazione tra il bambino e gli adulti di riferimento.
Ma perché proprio il pianto e non ad esempio il sorriso? Piangere, urlare, è efficace. Diversamente il bimbo non otterrebbe risposta, non susciterebbe preoccupazione, non ci metterebbe in uno stato di attivazione, pronti ad intervenire, non ci farebbe interrompere attività (compreso dormire!) per rispondere e reagire prontamente.
E perché proprio quel tipo pianto, a volte così difficile da tollerare? Il bimbo già in utero, a partire dalle prime settimane, inizia a sviluppare i cinque sensi, ed è quindi già in grado di percepire i rumori della mamma (respiro, battito cardiaco), la sua voce dall’interno e dall’esterno, le voci di chi è vicino a lei, e di imitare il linguaggio della mamma.
Accogliere quel pianto, quella comunicazione, stare con lui nel suo pianto, cullarlo, portarlo in un ambiente tranquillo, ridurre gli stimoli. può rivelarsi la soluzione migliore, senza cercare di distrarlo con pupazzi o dispositivi elettronici. La voce della mamma, del papà, una canzone, una filastrocca in rima, un rumore bianco (si tratta di un rumore che contiene tutte le frequenze, e per questo attenua il disturbo arrecato da altri rumori) sono in grado di calmare e rassicurare.
Il bambino può piangere per disagio, per richiamare l’attenzione, se si sente solo. Fino a poco prima della nascita, in utero, tutte queste necessità trovavano immediata risposta nel contatto con le pareti dell’utero stesso, nei suoni interni e nella voce della mamma, nel sapore del liquido amniotico. L’ambiente esterno necessita di risposte simili, in modo tale da permettere al neonato di ritrovare spazi e sensazioni conosciute e dunque tranquillizzanti, rassicuranti. È importante osservare quindi il proprio bambino, stare in ascolto di ciò che ci sta dicendo attraverso il suo pianto e la sua comunicazione.
Non è sempre facile: a volte la reazione più immediata è quella di agire frettolosamente, cercando di far cessare il pianto senza invece indagare quale possa essere il bisogno del momento che esprime. Si risponde allora offrendo distrazioni, ulteriori stimoli, per cercare di far cessare quella situazione di disagio (dell’adulto!).
E’ necessario al contrario cercare di non perdere la calma, non alzare la voce più di lui, non scuotere o scrollare il bambino e, se si è particolarmente stanchi, è consigliabile chiedere aiuto e parlare con qualcuno, confrontarsi per ricaricarsi e per essere di nuovo in grado di superare le situazioni più complicate.
Quando il bimbo piange a lungo in maniera apparentemente ingiustificata, una possibile reazione del genitore è la sindrome da scuotimento: è una sindrome molto grave correlata al pianto, che si realizza quando il bimbo piange a lungo e, complici la stanchezza fisica e psicologica, si interviene cercando di calmarlo scuotendolo avanti e indietro. Questi bruschi movimenti del capo possono provocare micro-emorragie nel cervello e negli occhi. Il cervello, infatti, sbatte contro le ossa del cranio (la struttura muscolare del collo è ancora debole e il controllo non accurato) e può subire lesioni gravissime, danni cerebrali irreparabili, riduzione delle capacità visive e anche la morte.
Falsi miti: e se poi prende il vizio?
Il pianto è un meccanismo elaborato dalla natura per far sì che ci sia un adulto presente e disponibile a prendersi cura di un cucciolo nato senza alcuna autosufficienza, diversamene da altri mammiferi. Si tratta quindi di bisogni, e della capacità di rispondere ai bisogni stessi.
Prendere spesso il neonato in braccio, cullarlo, tenerlo pelle contro pelle, rassicura il bambino e lo consola. Contrariamente a quanto si può immaginare non crea dipendenza, bensì ingenera nel bimbo la percezione che i propri bisogni vengano soddisfatti, avviandolo gradualmente verso l’indipendenza.
La reazione della mamma e del papà al pianto del neonato avvia il processo di accudimento, e la ricerca di soluzione al problema pianto coincide con la soddisfazione del neonato e del suo bisogno, che attraverso il pianto aveva espresso. La comunicazione ha funzionato, il bisogno è stato appagato grazie alla capacità del bambino di domandare e della sua mamma e del suo papà di rispondere adeguatamente al bambino, che ha visto reagire i genitori in relazione alla richiesta che è stato in grado di esprimere.