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Il Disturbo Oppositivo-Provocatorio: come risolverlo con l’approccio integrato

Molto spesso si sente parlare di disturbo oppositivo-provocatorio quando ci si trova davanti un bambino che non rispetta le regole, si arrabbia facilmente, non tollera le frustrazioni, litiga di frequente con gli altri e rende la vita familiare e scolastica molto complessa e faticosa.

È chiaro che parlando di questi bambini, è difficile effettuare una diagnosi definitiva: ci troviamo più spesso davanti a una fase transitoria dove il bambino può manifestare in maniera più o meno accentuata i sintomi del disturbo. Di sicuro si fa riferimento ad un disturbo del comportamento che è classificato come DOP (Disturbo Oppositivo-Provocatorio).

L’approccio neuro psicomotorio integrato osserva l’espressività del bambino e le sue proposte, e traduce tutti gli aspetti emotivi-relazionali che il bambino propone al terapista, attivandone una trasformazione.

È un processo lungo che vede coinvolta l’intera rete educativa, familiare, scolastica e professionale, finalizzato a coinvolgere tutte le parti in causa nel processo di trasformazione del bambino. La considerazione di partenza deve essere rivolta ad un bambino che ha delle fragilità sull’aspetto auto regolativo, ma che può, attraverso percorsi neuro psicomotori, fare esperienza innanzitutto del non giudizio. Di conseguenza il piano riabilitativo individualizzato andrà a prevedere incontri calendarizzati con il bambino e la famiglia, in modo da poter seguire insieme alle altre figure di riferimento il percorso terapeutico, considerando sempre con estrema delicatezza tutti i miglioramenti riportati dal bambino.

Che cos’è il disturbo oppositivo-provocatorio secondo il DSM-IV

È una modalità di comportamento negativistico, ostile e provocatorio che dura almeno da 6 mesi, durante i quali è presente una serie di modalità respingenti, di rifiuto, di collera e di rancore continuo e vendicativo. Questo ci porta a comprendere che tutto il piano psico-affettivo del bambino è alterato.

Come funziona il nostro cervello quando nasciamo e come si sviluppa

A questo punto bisogna spiegare bene attraverso il contributo delle neuroscienze, della psicologia e della pedagogia come si può intervenire attraverso la neuropsicomotricità.

La prima cosa da considerare è che noi tutti “sentiamo i pensieri”: nessun pensiero trasformato in azione è separato da uno stato emotivo.

Questo vale in modo particolare per i bambini, perché appena nati la loro funzione relazionale, affettiva e cognitiva è gestita principalmente dall’amigdala, un complesso nucleare che è all’interno del nostro cervello e che ha un ruolo chiave nella formazione e nella memorizzazione dei ricordi associati a eventi emotivi. Al suo interno sono possibili tutte le elaborazioni delle emozioni, e queste risultano essere la bussola per i comportamenti dei bambini.

Ciò significa che il bambino ha bisogno dell’adulto per dare un nome a ciò che gli accade, perché non ne ha la conoscenza necessaria.

Le neuroscienze ci ricordano che quando nasciamo abbiamo la possibilità di conoscere il mondo attraverso una capacità sensoriale autonoma, ovvero attraverso l’udito, il tatto, il gusto, la vista e l’olfatto. I sensi ci orientano sui gusti, sul piacere e dispiacere, sulla sensibilità generale; successivamente matura un livello limbico, ovvero l’emozione che sostiene questa sensorialità (la gioia, il fastidio, la paura) viene compresa, riconosciuta e rinominata, e soprattutto viene attivato il dono- potere della riflessione (mentalizzazione). Questa capacità arriva a manifestarsi in modo continuativo verso i 6/7 anni di vita.

Ciò può spiegarci perché può essere difficile per un bambino nel periodo di vita che va dai 2 ai 6 anni rispettare sempre le regole date dai genitori o dagli adulti di riferimento. Quello che possiamo fare è sapere come il bambino pensa, e di conseguenza attivare modalità pertinenti e adeguate a lui senza cadere nella frustrazione della fatica. L’adulto coinvolto in una relazione faticosa con il bambino è infatti un adulto che sta mettendo in gioco la sua emotività, e rischia di proiettare la propria rabbia sul bambino, senza risolvere il problema, anzi provocando nel bambino sentimenti di colpevolizzazione e di rabbia.

Quando abbiamo paura, il nostro sistema motivazionale può farci reagire in vari modi: con la fuga, con la paralisi (congelamento) o con l’aggressività. Tutte le volte che i nostri bambini aggrediscono altri bambini o addirittura gli adulti, i motivi possono essere riconducibili al fatto che possono sentirsi minacciati: per questo vanno aiutati e rassicurati, e non rimproverati, perché si rischia di sortire l’effetto opposto.

Giuseppe Nicolodi, psicomotricista, psicologo, formatore, autore di testi come “Maestra guardami”, “Il disagio educativo” etc, ci ha sottolineato quanto l’adulto sia responsabile della sicurezza emotiva e psicologica del bambino, perché il presupposto di tutta l’educazione dei nostri bambini risiede in quella modalità relazionale, così potente da far smuovere l’Universo.

Un piccolo suggerimento per affrontare il tema della relazione adulto bambino può essere quello di ricordare che i bambini al disotto dei 6 anni di età non hanno ancora la possibilità di interiorizzare il significato di ciò che diciamo attraverso le regole, di conseguenza potrebbero crearsi parecchi corti circuiti nella relazione. Sarà pertanto inutile innescare meccanismi di rimproveri e punizioni che non porterebbero nessun giovamento alla crescita psicologica del bambino.

Allora qual è il principio per cui i bambini imparano a rispettare le regole? La risposta è quella corporea, sensoriale, affettiva, ovvero la modalità privilegiata attraverso cui il bambino può imparare, perché l’unica che è in grado di capire ed elaborare. La modalità con cui facciamo passare il messaggio verbale e la sua ripetizione attraverso le routine, rassicurano il bambino che in questo modo interiorizza senza difficoltà. Viceversa, un atteggiamento regolarmente attivato sull’ordine, sul richiamo, sull’imposizione senza nessun coinvolgimento emozionale da parte dell’adulto, verrà percepito unicamente in una modalità minacciosa, rancorosa e umiliante. La parola in questo caso ha un potere vitale.

Giova ricordare un aneddoto su Federico II, imperatore intellettuale illuminato, che si chiese quale fosse la lingua originaria dell’essere umano, e decise così di effettuare l’esperimento più brutale della storia della psicologia evolutiva.

Organizzò uno spazio in cui dieci neonati vennero affidati a delle balie con l’ordine che venissero accuditi, ma impedendo alle balie di parlar loro, e di intessere relazioni affettive o interazioni di qualsiasi natura, per osservare così quale lingua i bambini avrebbero parlato senza nessun condizionamento esterno.

I bambini morirono tutti.

La vita si nutre della parola, della vicinanza, del pensiero che l’altro riversa sul bambino: questo dimostra quanta importanza riveste la vicinanza affettiva e verbale.

Se consideriamo, poi, che non siamo tutti uguali, è necessario in ogni situazione e con ogni bambino trovare il modo giusto per poter comunicare.

L’accoglienza in neuro psicomotricità è infatti sinonimo di ascolto autentico, fatto di sguardo, tenuta, accompagnamento verso l’autonomia prima emotiva e poi comportamentale.

Metodologia neuro-psicomotoria integrata

La metodologia neuro-psicomotoria integrata considera l’essere umano nel suo insieme e propone una visione sistemica anche del bambino, che tenga in considerazione la storia familiare, la sua formazione in grembo, durante la nascita e in tutto il periodo post-natale. Noi siamo un insieme di esperienze sensoriali, affettive, relazionali, ambientali, che condizionano la nostra esistenza. Come spesso ci ricorda la psicoanalisi, i primi anni del bambino nella relazione materna sono fondamentali per il suo sviluppo.

Il corpo è il tramite della conoscenza, soprattutto per il bambino, che fin da subito utilizza il desiderio per muovere il suo corpo e soddisfarlo. Il principio che domina tutto è il raggiungimento del piacere. Per questo quando il bambino identifica il proprio desiderio fa di tutto per realizzarlo, dal piacere di avere la pancia piena a quello di dormire, fino al piacere di raggiungere un oggetto che è nelle sue vicinanze, e tramite il quale cominciare a sperimentare l’attività privilegiata del bambino, ovvero il GIOCO.

Tutta l’esperienza importante del bambino, tutti i suoi apprendimenti si sviluppano attraverso il gioco, dapprima con la sua mamma e con i propri familiari, successivamente con le educatrici.

Molto spesso nel periodo di frequentazione del nido o della scuola dell’infanzia cominciano le prime osservazioni sul comportamento più o meno adeguato del bambino, e di conseguenza eventuali segnalazioni. Molti genitori si sentono spiazzati dal fatto che il loro bimbo non riesca ad avere una relazione sana con i suoi pari o con l’adulto, e che possa risultare facilmente irascibile, scontroso, oppositivo e disturbatore.

In questo caso l’educatore o l’insegnante consiglia di parlarne con il proprio pediatra, il quale indirizza, dopo una prima valutazione, al professionista più indicato. Molto spesso l’invio arriva anche dalla Neuropsichiatria infantile, che considera l’età del bambino e decide se farlo trattare dal professionista che utilizza una modalità attinente.

Ecco che il neuro psicomotricista dopo un incontro approfondito con i genitori incontra il bambino e dopo un’osservazione mirata stila un progetto in cui genitori ed insegnanti sono spesso coinvolti nel lavoro da fare.

L’incontro con il bambino avviene in uno spazio organizzato ad hoc per dare piacere al bambino; solitamente è uno spazio accogliente, luminoso e pieno di materiali di gommapiuma colorati, come materassi di varie grandezze e altezze, cubi, parallelepipedi, cilindri, palle, cerchi, stoffe, bastoni, cuscini, oggetti non strutturati, tavoli con libri, fogli e colori, plastilina, costruzioni… Tutto questo per accompagnare il bambino in una dimensione del piacere attraverso l’accoglienza, l’ascolto, il dialogo, il pensiero, il principio del non giudizio, dell’uguaglianza e soprattutto dell’equità.

Il bambino dopo aver ascoltato i patti condivisi con la terapista sperimenta il funzionamento di quel luogo: un posto in cui non ci si può far male, non si può far male agli altri, non si distruggono i giochi, si chiedono gli oggetti desiderati e non si portano via dalle mani, e quando il tempo si conclude si salutano i giochi e si può ascoltare una storia, si possono utilizzare fogli e colori per rappresentare un proprio desiderio, pensiero, si può giocare recandosi spontaneamente dove si desidera. All’interno del gioco si manifestano tutte le emozioni, che sono potentissime e molto utili al bambino per “sentirsi” e “conoscersi”, e nello stesso tempo per “sentire” e “conoscere l’altro”, le emozioni dell’altro, solo e sempre attraverso il FARE, attraverso le azioni.

Quando un bambino si sente accolto, non giudicato e colpevolizzato per ciò che fa o dice, è un bambino che non ha più bisogno di sentirsi minacciato e quindi di attaccare, scappare o sentirsi paralizzato dalla paura.

È quindi nella relazione che si aiuta il bambino ad affrontare quelle paure nascoste alla coscienza, simbolicamente attraverso il gioco, sia in modo spontaneo che orientato e guidato verso la modalità più vantaggiosa per il bambino stesso.

Conclusioni

È faticoso per il bambino mettere in atto una reazione oppositiva-provocatoria, perché il suo unico interesse è raggiungere e soddisfare il suo piacere.

Di conseguenza, prima di far radicalizzare un comportamento che porterà ad un DOP, è bene lavorare sulla consapevolezza della propria relazione con il proprio bambino, facendosi aiutare fin da subito da un esperto.

Attraverso percorsi, strategie educative familiari e scolastiche si potrà rispondere al bisogno del bambino e della famiglia.


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